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Giancarlo è stato per anni un luogo iconico dei Murazzi, uno spazio di piena spontaneità e libertà creativa.
CF: Parliamo di Giancarlo e di Torino negli anni ’90, che aria si respirava?
MC: Giancarlo inizia a farsi conoscere nei primi anni Novanta, quando estendendo i propri spazi a due arcate e diventa un posto dove si può anche ballare. Non è che a Torino non ci fossero club, c’era già una bella tradizione fin dagli anni 80, dal Tuxedo, allo Studio 2 passando per il Big club, il Polaroid e per il più recente Hiroshima. Tutti luoghi che hanno ospitato eventi internazionali o iniziative locali che rimarranno nella storia. Ma l’approccio torinese alla fruizione dei luoghi, al divertimento stesso fino ad allora era sempre stato molto misurato, contenuto, direi ingessato. Sotto le arcate di Giancarlo prima e dei Murazzi per intero poi, succederà qualcosa di diverso. Come se la città decidesse improvvisamente di cambiare volto. Il luogo informale, gli orari improvvisamente dilatati, la libertà della selezione musicale, spesso ad opera dello stesso Giancarlo, innescheranno un qualcosa capace di trasformare lo spirito. Tutto improvvisamente diventa più libero, disinibito, gioioso, folle. Qualcosa che fino ad allora si era visto forse solo in qualche centro sociale dell’epoca. E soprattutto la città sotto quelle arcate diventa un luogo senza più selezione all’ingresso. Dai perdigiorno ai ragazzi bene della collina, dagli stranieri ai giovani professionisti il luogo ospita tutti.
CF: E come risponde il pubblico di Torino alla nascita Giancarlo?
MC: Piano piano negli anni successivi Giancarlo diventa uno shaker incredibile, perché da una piazza Vittorio in piena trasformazione, arrivano studenti, un po’ di bohémienne, nuovi artisti, che si mescoleranno alle figure degli anni ’70 e ‘80 facendo di quel club una sorta di frontiera di contatto tra generazioni diverse; tra i personaggi degli anni ’70 che hanno fatto la stagione politica e quelli che hanno vissuto la stagione degli eccessi c’è Peppo Parolini, figura molto complessa la cui voce compare nel brano che ho prodotto per Club Futuro. La sua è una vita da romanzo, anche se di quelli probabilmente poco edificanti. Una persona che ha conosciuto i più grandi jazzisti del tempo, l’eroina quando era ancora una cosa per i salotti di lusso, fino ai terroristi delle Br in carcere. Passando tutto il mondo creativo che faceva scalo a Torino. Peppo era perfettamente capace di descriverti luoghi di città in cui non era mai stato, perché era comunque bravissimo ad assorbire storie a raccontarle. Una sorta di Pianista sull’Oceano. Anzi sul fiume. La sua voce che era un eterno sottofondo da Giancarlo, e per me rimane uno dei suoni identificativi di quello spazio. Tra l’altro Peppo Parolini redigeva anche una sorta di rivista della notte “L'urlo dei Murazzi” su cui hanno collaborato personaggi come Cioni, illustratore eccezionale, o Sandro Lenite, che era stato mio professore di storia dell'arte a scuola, mescolati con quelli che erano i ragazzi della generazione della Pantera, la mia generazione post punk, studenti, disoccupati musicisti, scrittori e artisti visivi. Improvvisamente sotto quelle arcate si ritrovava una città che imparava a mescolarsi senza le barriere del quotidiano, e attraverso questa vibrazione energica imparava soprattutto a conoscere se stessa. Perché in quel luogo riuscivi in qualche modo a sentirti libero, potevi fare il cazzo che volevi da Giancarlo - senza infastidire gli altri ovviamente - (da dietro le panche di Gianca ogni tanto spuntavano personaggi completamente nudi), c’era uno spirito molto libertario e quindi molto liberatorio.
CF: E in questo contesto di piena spontaneità come nasce il tuo rapporto con Giancarlo?
MC: Io lo frequentavo quando suonavo ancora con gli Africa Unite e poi, nel momento in cui nascono i Subsonica, diventa il locale dove, anche solo per un saluto, scendevo tutte le sere passando per le feste comandate, Natale, Capodanno etc. Addirittura, quando mi sono sposato, dopo la cerimonia diurna, ci siamo fatti risposare alle 3 di notte da Giancarlo stesso. Quello spazio è stato determinante per la nascita dei Subsonica, per definirne il carattere. Mentre ancora stavamo tentando esperimenti nel mescolare linguaggi underground provenienti dalla scena internazionale a una vocalità più melodica, avevamo trovato un punto di riferimento: i murazziani stessi. La nostra gente. Il nostro pubblico che ancora non sapeva di esserlo. Quando saltando dietro la consolle inserivamo una musicassetta con qualche brano appena realizzato nel mio studio di Piazza Vittorio, osservavamo la reazione della gente. Se continuava a ballare e si prendeva bene, era tutto ok. Non ci serviva altro. In quel posto in qualche modo ascoltavi di tutto, un po' perché lo stesso Giancarlo facendo il dj passava dalla goa trance a Paolo Conte con una scioltezza veramente invidiabile e un po' perché era l'approdo finale di tutte le tribù notturne.
MC: La cosa più importante era il senso di appartenenza: quella dimensione spaziale ha fatto sì che evitassimo di emulare i modelli esteri, perché noi, contrariamente a quello che succedeva negli anni Ottanta, non volevamo essere a Londra, a Berlino o a Parigi, noi stavamo bene qui, sentivamo che quel luogo ci rappresentava. E quando i Subsonica hanno iniziato a far uscire i primi album, la popolazione di Giancarlo ha continuato ad essere il nostro riferimento immediato, un pubblico fatto da quelli che continuo ancora a definire “Murazziani”, una pelle che ti porti un po' dietro tutta la vita. Grazie ai Murazzi abbiamo avuto un'identità sonora dal primo disco nonostante non avessimo mai suonato insieme prima, e arrivassimo da storie e mondi completamente diversi. Questa cosa ha funzionato per noi che eravamo un gruppo musicale, ma anche per gli scrittori e gli artisti visivi degli anni 90 che noi abbiamo in qualche modo voluto rappresentare utilizzando i quadri di Daniele Galliano, un dei più tra i più importanti della sua generazione in Italia, per il videoclip di “Dentro i miei vuoti”; ecco quella canzone e il suo videoclip con i quadri che Daniele ritraeva anche da Giancarlo, rappresenta una delle cose più capaci di restituire un po’ l’atmosfera di quel club.
"Improvvisamente sotto quelle arcate si ritrovava una città che imparava a mescolarsi senza le barriere del quotidiano, e attraverso questa vibrazione energica imparava soprattutto a conoscere se stessa (...) c’era uno spirito molto libertario e quindi molto liberatorio."
CF: Ma come nasce invece questa natura underground di Torino?
MC: Oltre le cose che assorbivano sotto le arcate dei Murazzi, bisogna ricordarsi anche che c' erano i rave, il periodo in cui Xplosiva iniziava a fare le serate elettroniche, i centri sociali e noi mettevamo insieme un po' tutto quanto. Il racconto dei Murazzi, che cerco sempre di tener lontano da qualsiasi rischio di contaminazione nostalgica, è un po' il racconto di tutte le città che hanno una buona relazione con il proprio underground: non esistono città in buona salute senza una scena underground viva, che è la flora batterica di un organismo che funziona bene. È un patrimonio capace di generare e rigenerare energie in grado di rimanere in circolo per tantissimi anni e di ispirare comportamenti e approcci non dettati dai codici della comunicazione o società di massa, ma da esperienze più contagiose e creative, in grado di dotare la città di strumenti per affrontare meglio le trasformazioni epocali e le sfide della contemporaneità. Quel tipo di underground è un mondo che ha spinto sicuramente la progettualità di tante persone che si sono poi espresse anche al di fuori dell’ambito creativo e musicale, che si sono portate dietro quell’imprinting nelle scelte e nei percorsi che hanno reso questa città sicuramente migliore di quanto non fosse prima. È difficile tracciare una linea tra l’underground e questi fenomeni, ma Torino prima che ci fosse questa esplosione di mille colori e di grandissima energia era completamente diversa. Era una città caserma, che in qualche modo ricalcava le linee comportamentali dello stato militare del Piemonte creato dai Savoia. Un luogo sicuramente pieno di talenti e di iniziative, che però faticavano a diventare contagio, patrimonio condiviso. Ancora oggi girando per l'Italia, quando ti capita di imbatterti in sperimentazioni anche in ambiti molto diversi, dalla tecnologia, alle politiche sociali, di inclusione, e di progettualità virtuose, puntualmente ti viene restituita una grande verità: a Torino questa cosa la si faceva già dieci anni prima. Bisogna però ricordarsi che l'underground a Torino ha radici piantate negli anni Ottanta. Con El Paso, poi con Radio Blackout e tutta una serie di esperienze, si creano i presupposti per far sì che la città in trasformazione rimanga inclusiva, con un rapporto diverso con il profitto e l’economia, garantendo un’estrema accessibilità. A Milano negli stessi anni non era la stessa cosa, per esempio.
"In quel posto in qualche modo ascoltavi di tutto, un po' perché lo stesso Giancarlo facendo il dj passava dalla goa trance a Paolo Conte con una scioltezza veramente invidiabile e un po' perché era l'approdo finale di tutte le tribù notturne."
CF: Quel tipo di approccio spontaneo e libero da logiche strettamente di profitto è una cosa che sta venendo sempre più a mancare ultimamente. Abbiamo sempre più l'ossessione della produttività e della performance, anche per la digitalizzazione invasiva della nostra vita dove siamo sempre giudicati, controllati e connessi. Mentre da Giancarlo si perdeva tempo, si staccava, e si tiravano fuori cose fuori dai codici. Quant’è importante ora quell’attitudine all’ozio?
MC: Sì è successa da Giancarlo una cosa analoga a quella avvenuta negli anni ‘80 nei centri sociali, dove la realtà era molto distante da quella attuale dell’ipercompetizione; il mondo in cui crescono i ragazzi oggi è molto performante, e nel momento in cui stai oziando su una piattaforma, comunque controlli il numero dei tuoi followers, di like, mentre invece in qualche modo le controculture si opponevano al demone dell’aziendalismo e si creava un ambiente dove tutti avevano la possibilità di provare; non posso neanche ricordarmi tutte le persone di genio e di talento che hanno un passato nei centri sociali, dove si son stati fatti i primi esperimenti all’interno di pratiche anche molto diverse: che si trattasse di diventare uno scenografo, di mettere su una radio, di organizzare un concerto, di fabbricare cose. In quel mondo dove nessuno ti dava un voto a quello che facevi e dove paradossalmente, senza la pressione del risultato, si voleva provare a fare meglio di come il mondo esterno potesse fare, per creare un’alternativa migliore con un’attitudine do-it- by yourself. Se in una città ci sono dei luoghi dove si possa progettare il possibile, fare in modo che qualche cosa possa accadere, beh la città dovrebbe avere la lungimiranza di mantenerlo, proteggerlo e valorizzarlo. Avere delle zone liberate.
CF: Vero, le città dovrebbero lasciare la possibilità e creare i presupposti per far nascere queste tipologie di zone libere di espressione, ma come fare?
MC: Il punto è trovare il modo di gestire il confict management tra chi ha un esercizio commerciale ed è sottoposto a determinate regole e vincoli, e questi luoghi che più di tanto non dovrebbero essere irreggimentati, e capire che la vitalità notturna deve essere armonizzata in luoghi in cui questo può succedere: i Murazzi strutturalmente essendo così underground, cioè sotto il livello delle abitazioni della città, erano decisamente adatti. Purtroppo la situazione è anche un po’ sfuggita di mano e in alcuni luoghi meno significativi certe regole e una certa autoregolamentazione è stata ignorata, e chi metteva le casse fuori dal locale a tutto volume per cercare di attirare il pubblico generalista – senza poi neanche riuscirci - disturbava una parte della città perché poi il suono rimbalzava sul fiume; mentre gli spazi più significativi che erano poi quattro o cinque con anche il CSA, queste cose non le hanno mai fatte, si muovevano con molta più attenzione.
"le controculture si opponevano al demone dell’aziendalismo e si creava un ambiente dove tutti avevano la possibilità di provare"