>>> Intervista con Daniele Citriniti, co-fondatore e co-direttore artistico di OFF TOPIC <<<
OFF TOPIC nasce nel 2018 come spazio multidisciplinare all'interno del complesso del Torino Youth Centre nell'area universitaria del Campus Einaudi.
CF:Partiamo dalla base: OFF Topic nasce nel 2018. Cos’è e come nasce?
DC: OFF Topic è il nuovo progetto del Torino Youth Center, associazione di secondo livello formata da una serie di associazioni in rete che animano gli spazi e che vede nelle associazioni The Goodness Factory, Bob e Cubo Teatro i capofila del progetto. Dal 2017 il TYC come luogo fisico ha avuto la necessità, dettata dai tempi, di una ristrutturazione decisamente importante. Un gruppo di persone, componenti le associazioni capofila, si è presa in carico la rigenereazione dello spazio, sottoscrivendo un mutuo per lavori di ristrutturazione che, affiancato al contributo della Regione Piemonte, ha reso possibile la rivalutazione della struttura. Oggi OFF TOPIC è un laboratorio creativo permanente dove artisti di settori diversi si incontrano, dove gli addetti ai lavori fanno rete davvero e dove il pubblico può partecipare alla programmazione senza tessere e spesso gratuitamente o semplicemente venire a scambiare due parole in cortile. Oltre a essere un luogo di performance e nightlife, OFF TOPIC è sala studio universitaria, hub e network in ambito creativo e culturale. I soggetti che gravitano attorno ad OFF Topic possono trovare qui una piattaforma di atterraggio e ripartenza per poter scambiare competenze e opportunità. È un modello molto particolare: c'è chi studia, chi lavora, chi recita, chi suona, chi mangia e chi viene a vedere una mostra o ad assistere a un reading. In sostanza OFF TOPIC è progetto di attivazione del territorio, di protagonismo giovanile in ambito culturale, con un focus specifico sulla performance. Ovviamente questo è un impegno, abbiamo creato un contenitore che possa essere terreno fertile per generare opportunità in ambito creativo e culturale, ma questo significa anche avere tante teste da mettere d'accordo.
CF: Come fate a far coesistere questi contenuti molto diversi?
DC: A OFF TOPIC convivono diverse direzioni artistiche che cercano di seguire una linea comune legata all'inedito e al contemporaneo: in ambito teatrale il Cubo Teatro e in ambito musicale The Goodness Factory. Quello che ci accomuna sono la sperimentazione, la promozione e anche l'investimento nella produzione culturale contemporanea senza avere scrupoli nell'abbandono delle vecchie tradizioni.
CF: OFF Topic mi sembra la nascita di un nuovo ecosistema, dove gravitano anche altri progetti come _reset e io Sono La Musica Che Ascolto, che senso ha per te in questo momento focalizzarsi sulla sensibilizzazione del valore della musica?
DC: Sono tantissimi i progetti che ospitiamo.. la stagione teatrale di Fertili Terreni Teatro, Poetronica, DisCover, Wereading, Torino Comedy Lounge, Cantautori in Canottiera... L’esigenza da cui nasce per esempio Io Sono La Musica che Ascolto, è quella di cercare di dare un valore quantitativo, ma anche qualitativo, alla musica dal vivo, che in Italia non è così semplice. Torino viene riconosciuta come luogo di grande fermento e produzione, soprattutto di festival musicali, anche per quell'eredità derivata dagli anni ’90 quando la città si è trasformata da postindustriale a culturale-universitaria generando molte espressioni musicali e culturali importanti a livello nazionale. Chi opera nel settore sa che la realtà è molto cambiata negli anni. Ora c’è l’esigenza di dotare questo settore di una solidità a livello numerico quantitativo e qualitativo e di una tracciabilità. Istituzioni, imprese, enti pubblici o privati e fondazioni bancarie hanno una grandissima difficoltà a riconoscere questo settore culturale come tale, e, se già c'è difficoltà nel teatro d' avanguardia e nel teatro contemporaneo, nel caso della musica leggera/d’autore risulta tutto ancora più difficile: la maggioranza dei soggetti e dei musicisti si configura come gruppo informale. Gli studi del 2018 (a breve usciranno quelli del 2019) del report di "Io Sono La Musica che Ascolto" lo hanno dimostrato, la maggior parte di spettacoli dal vivo avviene all'interno di circoli, centri sociali o spazi non convenzionali gestiti da associazioni che hanno un regime fiscale più difficile da tracciare e una serie di sgravi (legittimi) dal punto di vista di pubblico spettacolo che non rientrano nella normativa classica e desueta, che in questo momento sta diventando sempre più stringente: da un lato quindi si tiene stretto il guinzaglio sui club musicali, dall'altra parte la maggior parte degli spettacoli dal vivo si svolgono all'interno di spazi che sono più difficili da inquadrare dal punto di vista normativo. É un habitat estremamente frammentato.
CF: Quindi come vedi questo progetto nel breve e lungo termine?
DC: Io Sono La Musica Che Ascolto è un progetto no profit di impatto sociale e culturale con l’obiettivo di restituire una visione di marketing territoriale alla Città di Torino, cercando di inquadrare Torino come una città che genera contenuti artistici underground di qualità. Torino non è la città dell'industria musicale ma è la città delle piccole produzioni. E questo può essere valorizzato, perché nei luoghi dove c’è tanta industria può essere molto più difficile riuscire a far emergere il substrato, mentre in un luogo dove c'è meno concentrazione d’interesse alcuni processi di innovazione e produzione sono più semplici.
CF: Le produzioni dal basso che possono esistere quando probabilmente hai un certo tipo di terreno che ti consente di avere anche delle libertà di sperimentazione senza troppe pressioni di mercato…
DC: Esatto, se pensi anche solo ai modelli che hai qui a Torino non ci sono la major musicale o la multinazionale, ma l’impresa di nicchia, l’associazione o l'etichetta indipendente, l'artigianato: è chiaro che quando il modello di riferimento è mainstream, il substrato cercherà di aderire a quel modello. Questo non vuol dire però che la produzione di nicchia non possa crescere e scalare, ma deve avere una certa libertà di manovra per emergere, per poter generare i suoi piccoli casi di successo. É interessante vedere come le produzioni territoriali torinesi generino delle nicchie culturali, che poi molto spesso sono prese e portate dentro dei bacini più ampi.
"Ora c’è l’esigenza di dotare questo settore di una solidità a livello numerico quantitativo e qualitativo e di una tracciabilità."
CF: Come avete fatto a costruire OFF Topic, dove avete trovato le skills e qual è stato il processo di acquisizione di competenze?
DC: Innanzitutto l’acquisizione di competenze avviene sempre tramite gli errori. Poi ci siamo affiancati a molti professionisti non avendo nel nostro team figure come ingegneri, architetti e tecnici. Nel direttivo del TYC, tuttavia, ci sono diverse competenze che arrivano da esperienze e vissuti di un gruppo che oggi verrebbe definito di under40.
CF: In questo senso cosa vedi di diverso in Italia rispetto al resto d’Europa?
DC: Probabilmente, a differenza di altri paesi europei, in Italia oggi aprire un club non è un business ma un investimento di tipo sociale, (all’estero BCorp) guidato più che altro da obiettivi di impatto culturale piuttosto che da impulso imprenditoriale… ma è pur sempre lavoro e in più si tratta di un investimento estremamente rischioso. Molto diverso è aprire una discoteca o un ristorante, un bar o un chiosco. Per me unire, anche fuori dai temi principali (OFF TOPIC per l’appunto), formazione, performance, studio, impresa vuol dire creare un HUB, coworking di contaminazione artistica e culturale per sperimentare un modello che in Italia non è ancora diffuso e che fa bene al territorio. All' estero ci sono un maggior numero di casi ed è anche più sostenibile. In Italia ti trovi spesso con le stesse regole e gli stessi problemi di un locale commerciale, ma non stai incassando come tale. Oggi il grosso problema normativo è nazionale: non c’è una normativa dedicata ai luoghi culturali che preveda sgravi o tasse agevolate per chi dimostri di avere un impatto sociale o culturale. All'estero questo è possibile, ci sono dei luoghi e delle reti istituzionalizzate dedicati alla cultura.
CF: Come mai in Italia non succede?
DC: Qui non c'è tanto la capacità e la volontà, spesso, di mettersi in rete. A Torino manca anche per alcuni gap generazionali tra i soggetti e una grossa dispersione di energie e economie, poi c’è una certa “torinesità” che non passa mai. Alcuni tentativi delle istituzioni di creare supporto ci sono stati in passato come Torino Sistema Solare, Piemonte Groove, Musica in Piemonte, sostenute per un periodo, ma le reti costituite attorno a questi progetti che fine hanno fatto dopo? Se non c'è una coesione di settore, non ci potrà essere un vero sostegno istituzionale e un riconoscimento al settore stesso. Ci sono collaborazioni, ma c’è poca volontà di fare rete.
CF: È come se a Torino e in Italia si faccia ancora fatica a riconoscere i club come spazi culturali, mentre si continua a puntare su realtà più tradizionali, come teatri, musei etc…
DC: È importante continuare ad avere il Teatro Regio, il Museo Egizio, il Teatro Stabile, perché sono un patrimonio culturale fondamentale, sono attrattori turistici, ma le varie componenti così differenti tra loro di una città dovrebbero dialogare e incrociarsi, cosa molto difficile, al fine di contaminarsi.
CF: Come dovrebbero comportarsi le istituzioni per facilitare questo percorso?
DC: Bisognerebbe accompagnare la spinta espressiva della città assumendosi il rischio di andare verso una direzione e sostenerla, a livello politico e anche a livello tecnico per non far interrompere il flusso. E i residenti.. Le istituzioni dovrebbero essere in grado di stimolare l’impresa culturale, mettendo anche intorno al tavolo quei soggetti che abbiano interesse di investire sul comparto. Una linea prospettica e condivisa, una strategia istituzionale ampia e concreta che renda possibile per il pubblico quella sensazione di orgoglio torinese e che possa segnalare agli addetti ai lavori un canale di attivazione per la progettazione culturale dal basso, per l’apertura di nuovi spazi di espressione ed emersione. Ci vuole un po’ più di coraggio. Vai a Londra, al Roundhouse per esempio e vedrai un esempio lampante! Il progetto è finanziato dall’ Arts Council, un’organizzazione no profit che viaggia forte, Londra nel bene e nel male è una città con delle linee strategiche, ma qual è la linea strategica di Torino?
CF: Quindi quale può essere una soluzione per il futuro?
DC: Dal mio punto di vista non serve inventarsi niente, l’unica soluzione è quella più semplice.. valorizzare i modelli virtuosi esistenti di modo che si creino dei riferimenti e attuare una strategia istituzionale condivisa ed accompagnata da investimenti a lungo termine, pubblici e privati. Penso che su una città come Torino valga la pena investire sulla Cultura in senso ampio, soprattutto in ambito performativo e formativo. Oltre al food & beverage e ai servizi turistici tradizionali, alle residenze per gli studenti fuori sede e ai “grandi" spettacoli, Torino rappresenta un bacino di produzione culturale dal basso che ribolle ed anima la città in molti suoi anfratti e angoli bui. La rende unica. Noi, nel nostro piccolo, stiamo cercando di costruire un'agorà nella quale combinare tutto ciò che è rimasto fuori tema, ma che per noi rappresenta il tema principale.
"Bisognerebbe accompagnare la spinta espressiva della città assumendosi il rischio di andare verso una direzione e sostenerla"