>>> Intervista con Marco Mordiglia fondatore del Puddhu <<<
Per molti di coloro che hanno vissuto i Murazzi a Torino, il Puddhu ha rappresentato uno spazio di contro cultura ed espressione alternativa unico nel suo genere. Ce lo racconta Marco Mordiglia, ex gestore del Puddhu e colonna portante del progetto The Dreamers, uno degli esponenti più importanti della scena drum & bass in Italia.
CF: Cominciamo dall'inizio: Torino anni ‘90, che aria si respirava?
MM: Nel 92-93 frequentavo Radio Blackout, e molte delle cose che succedevano erano legate alla scena degli squat, si occupavano i posti per fare festa, c’erano gli Acid Drop, i CCC CNC NCN che facevano anche performance, si andava al Barrocchio, Prinz Eugen, ai rave..la techno non era tanto la mia musica, ma l’atmosfera che si respirava e la visione erano molto interessanti. Certo c’erano anche le droghe, ma è un’ipocrisia pensare che quello dell'abuso di sostanze sia un problema confinato ai rave, non è che il malessere c'è solo quando uno va in un club o a un party, il malessere uno se lo porta da casa.
CF: Concordo! E come ti sei avvicinato alla scena drum and bass in Italia?
MM: Ho iniziato con un programma su Radio Blackout: insieme a Patrick Di Stefano e Y mettevo black music, jazz, hip hop e i primi suoni trip hop e jungle. Suonavamo ogni tanto al Superbike, vicino a Piazza Rivoli, e tutti i soldi che guadagnavamo dalla serata li andavamo a spendere in dischi. Il sabato si faceva il giro dei “tre cantoni”, Rock & Folk, Maschio e Vero Vinile, poi c'era qualcosa da Back Door, negozio storico per rock, indie che c’è ancora adesso. Poi ho conosciuto Robertino (Plasticone) e insieme abbiamo cominciato a suonare alla Pergola di Milano intorno al 97: era il punto di riferimento per la scena drum and bass in Italia insieme al Maffia a Reggio Emilia e al Brancaleone di Roma.
Abbiamo mandato un tape con un nostro mixato, stiamo parlando di preistoria, e siamo finiti per diventare resident del club, entrando a far parte nella parte migliore della scena nazionale. E quello ci ha permesso di avere un’altra credibilità anche qui a Torino.
CF: Visto che in Italia la scena era ancora così ristretta, come si rimaneva aggiornati riguardo a quello che succedeva all’estero?
MM: Non esisteva internet, per cui si partiva uno o due volte all'anno e si andava a Londra a vedere cosa succedeva alle serate; eravamo diventati amici di Jane (Dj Storm) che ogni volta ci introduceva a qualcuno di nuovo e si entrava un po’ più in contatto con la scena. Nel 97 la drum and bass era esplosa, camminavi per strada a Londra e in qualsiasi negozio sentivi quel sound, nel 2000 si è passati poi alla uk garage. La drum and bass piaceva anche a chi ascoltava rock o jazz, era molto melodica, atmosferica, te la potevi ascoltare anche in macchina, alle feste invece la techno picchiava duro.
"è un’ipocrisia pensare che quello dell'abuso di sostanze sia un problema confinato ai rave, non è che il malessere c'è solo quando uno va in un club o a un party, il malessere uno se lo porta da casa"
CF: Com’è nata invece l’idea di fare una serata con una propria identità distinta?
MM: Per noi la chiave di svolta è stato il Sun and Bass, il festival in Sardegna organizzato da tedeschi, che, per la prima edizione, al posto dei grandi nomi avevano invitato tutte le grandi organizzazioni d’Europa e ci aveva permesso di fare un sacco di network. Il festival rompeva tutti i cliché a cui eravamo abituati, non era solo per kids con il cappellino, c’era una componente femminile alta, un pubblico più eterogeneo.
Da lì abbiamo iniziato a lavorare sulla nostra immagine, abbiamo pensato al nome The Dreamers e ad un suono un po' più funky e melodico, meno duro. E alla terza edizione del Sun and Bass abbiamo avuto proprio una nostra serata che si chiamava appunto The Dreamers.
CF: E in quegli anni inizia anche l’esperienza Puddhu giusto?
MM: Sì, più o meno nello stesso periodo è partito il Puddhu, in maniera del tutto spontanea e un po’ casuale: ho conosciuto Furio che abitava in Via Ormea nella mia stessa casa e abbiamo deciso di provare a chiedere in gestione il locale.
All'inizio facevamo 2 o 3 progetti diversi, poi abbiamo deciso di proporre tutti i sabati The Dreamers; eravamo abbastanza improvvisati, senza riscaldamento, con le pezze al culo.
Nel 2006, con l'arrivo delle Olimpiadi, i proprietari hanno fatto investimenti, messo il dehor ed è lì che sono iniziati altri progetti come Underscore 7 (quella che poi è diventata Savana Potente) poi si sono aggiunti anche i ragazzi di Xanax, con Gabri (Guazzo) che a quel tempo non si trovava bene in nessun altro club: dopo i primi tempi la serata è esplosa. La cosa interessante è che in fondo facevamo le serate che gli altri non volevano, quando andavi a proporre le serate drum and bass in giro, i proprietari ti chiedevano “ma quanta gente porti, ma è una musica che porta brutta gente?”, idem con l'indie quando all'inizio non se lo cagava nessuno.
CF: Già, quello che mi ricordo del Puddhu era la sua natura anti mainstream, un’identità molto forte che richiamava persone diverse che in un modo e nell’altro lì si sentivano a casa. Cos’è che ha fatto funzionare il Puddhu?
MM: Girava tutto intorno alla musica, io son sempre stato appassionato di musica fin da quando ero piccolo, mi registravo la classifica in radio con i tape. E Torino è sempre stato un po’ un grande paese, ci si conosceva tutti. Il Puddhu si fondava su musica e amicizia, contatto diretto, eravamo riusciti a creare una forte community offline.
CF: È interessante vedere che quando hai delle persone appassionate e professionali, riesci a tenere un livello qualitativo artistico alto anche senza grandi nomi, ora sembra che tutto si sia fossilizzato sull’idea del big guest, la spettacolarità dell’evento...
MM: Il bello è che noi eravamo fuori da tutte le logiche, nessuno faceva parte di partiti politici o di altri giri, noi eravamo lì principalmente per la musica, poi ci piaceva l'idea libertaria e tutto il resto ma non ci associavamo a nessuna ideologia statica. Una volta abbiamo fatto una serata con Giles Peterson insieme a Denis (Jazz Re:Found), sapevo che non ci avrei guadagnato niente, ma l'idea di avere Giles nel mio club valeva tutto. Il prezzo alla porta era sempre popolare, l'unica volta che abbiamo fatto biglietto più alto è stato con Savana Potente e Marcel Dettmann, era arrivata gente da mezzo nord Italia e cercavano di corrompere i buttafuori per entrare...
È giusto che tu faccia l'ospite per avere nuovi input, far capire come evolve il genere musicale e le sue varie espressioni, però non dovrebbe girare tutto in torno a quello, l'ospite dovrebbe essere un mezzo per far evolvere la scena locale.
CF: Sì la possibilità di formare e consolidare una scena artistica locale è una cosa molto importante che solo pochi club riescono a fare, come si è evoluta l’esperienza The Dreamers nel tempo?
MM: All'inizio eravamo io, Robertino (l'altro Rollers inc.) e Ninja, batterista dei Subsonica. La mia idea è sempre stata quella di buttare dentro energie nuove, è arrivato Bow, Viktor Kwality, Ale Bevilacqua, Distopia, Bleiz, Shizo, Kermit e poi Andrea Neve. E sono proprio lui e Bow che hanno deciso di tirare fuori l'etichetta The Dreamers, facendola poi crescere benissimo: tutt’ora rimane super attiva e riconosciuta a livello internazionale.
"Il Puddhu si fondava su musica e amicizia, contatto diretto, eravamo riusciti a creare una forte community offline"
CF: Un entourage di tutto rispetto! E a parte la musica cosa c’era al Puddhu?
MM: C'era una commistione con il mondo artistico, collaboravamo con i Bounty Killer, erano ancora all'Accademia di Belle Arti, ci si conosceva in maniera spontanea poi ci siamo avvicinati alla street art con i ragazzi del Cerchio e Le Gocce, e poi i Truly Design, Max Petrone…alla fine il Puddhu era un polo d'incontro, con questo senso di indipendenza e di libertà, dove non ci si prendeva mai troppo sul serio.
CF: Chiaro, invece com’era il resto dell’atmosfera ai Murazzi?
MM: I Murazzi erano belli hardcore, c’era molta bassa criminalità, e noi per questo avevamo deciso di investire un sacco sulla sicurezza. Poi negli anni ci abbiamo fatto il callo, ma se ti ricordi una volta Piazza Vittorio era malfamata.
Le forze dell'ordine non erano molto reattive alle nostre chiamate e quando intervenivano lo facevano in ritardo quando ormai il peggio era accaduto. Alla fine, ogni anno pensavamo che per il Puddhu fosse l’ultimo.
CF: È un peccato perché dopo gli anni ‘80 con la “rigenerazione culturale” di Torino, la riscoperta del centro, Piazza Vittorio riconvertito e i Murazzi, sembrava si stesse andando verso una direzione positiva…
MM: Sì dagli anni 2000 in avanti c'è stata un po' l'esplosione della vitalità culturale e musicale, e se quel processo fosse stato governato bene, Torino sarebbe potuta forse diventare un’altra città.
Ma così non è stato, un po’ come altre questioni legate a Torino, pensa la questione metro…mi ricordo che si parlava già di Metro quando avevo 14 anni, erano gli anni ‘80, ma fino a quando c’è stata la Fiat nulla.
Penso sia stato un problema di visione e metodo, alla fine tutto dipende se tu governi i processi o se ti fai governare dagli eventi, quello fa la differenza.
CF: È frustante vedere come risorse e opportunità vengano sprecate. Non voglio essere nostalgico, ma un po’ il Puddhu ci manca! Cosa pensi che si perda quando un club come il vostro scompare?
MM: Con la morte dei piccoli medi club ammazzi la scena locale, è piuttosto semplice. Diminuisce il fermento, ci sarà sempre bisogno di posti come il Puddhu in grado di catalizzare le energie creative della città.